Stando a un recentissimo report, soltanto il 50,2% dei giocatori ha completato la storia principale di Ghost of Tsushima. Ciononostante, il titolo di Sucker Punch si colloca al secondo posto dopo Marvel’s Spider-Man nella classifica degli open world portati a termine dall’utenza PlayStation. Come potete osservare dalla lista qui sotto, le percentuali di completamento sono abbastanza preoccupanti, tuttavia non riguardano solo questa tipologia di giochi. Basta dare un breve sguardo a siti come PSNProfiles per rendersi conto che tantissimi altri titoli meno dispersivi subiscono la stessa sorte. È una tendenza piuttosto comune, dovuta a molteplici fattori – tra cui un’offerta eccessiva – e trascende le piattaforme Sony. Insomma, un problema riconducibile a qualsiasi giocatore indipendentemente dalla piattaforma di riferimento.
- Marvel’s Spider-Man – 50.8%
- Ghost of Tsushima – 50.2%
- Assassin’s Creed Origins – 38.2%
- Far Cry 5 – 36.7%
- Days Gone – 34.7%
- Horizon Zero Dawn – 34.1%
- Assassin’s Creed Odyssey – 30%
- The Witcher 3 – 29.8%
- Death Stranding – 28.6%
- Red Dead Redemption II – 28.2%
- Watch Dogs 2 – 24.9%
- Assassin’s Creed Valhalla – 19.8%
Considerando che gli action-adventure di stampo open world sono ormai altamente diffusi, in questo appuntamento con l’angolo della critica mi soffermerò sui limiti dei suddetti. Proverò dunque a fare una panoramica della situazione attuale, proponendo al contempo alcune soluzioni adottabili al fine di ottenere prodotti migliori.
Quantità oltre la qualità
Inizio subito prendendo in esame uno dei problemi più significativi – e ovvi – degli open world moderni, i quali puntano sulla quantità piuttosto che sulla qualità. Che si tratti di un gioco da oltre 100 ore come gli ultimi Assassin’s Creed, o da 40 come Horizon Zero Dawn, spesso ci si scontra con una qualità altalenante nei contenuti proposti. Ciò è dovuto principalmente a due caratteristiche differenti ma correlate, vale a dire mondi enormi e quel modello strutturale ideato da Ubisoft. Non c’è bisogno di dire che nelle ultime due generazioni quest’ultimo ha proliferato finendo per influenzare l’intera industria. Ne risultano giochi dagli altissimi valori produttivi che si somigliano un po’ tutti: conquista la torre, libera il campo base, trova i collezionabili, ripeti. Gioco dopo gioco ci ritroviamo a fare le stesse attività in mondi artisticamente bellissimi ma sfruttati male.
Certamente, ogni serie a modo suo riesce comunque ad avere un’identità precisa grazie alle altre componenti, ma non basta. Il giocatore dovrebbe essere stimolato costantemente con storie, idee o meccaniche di gioco tali da tenerlo incollato allo schermo. Nell’ottica di un’industria sempre più interessata al mero profitto, dubito che le qualità ludiche degli sfavillanti AAA siano destinate a crescere, ma sperare non costa nulla. E se gli sviluppatori desiderano che le avventure da essi realizzate vengano portate a termine, prima o poi dovranno fare delle scelte.
Tornare indietro per andare avanti
C’è stato un tempo in cui i videogiochi offrivano mondi non necessariamente vasti ma ricchi dal punto di vista delle meccaniche di gioco. Durante la sesta generazione di console non era raro imbattersi in titoli eccezionali in termini di varietà, quel tipo di esperienze che alla fine ti lasciavano un notevole senso di completezza e appagamento. Tra minigiochi e meccaniche pensate ad-hoc per specifiche missioni, il divertimento era garantito. Piccoli mondi, grandi emozioni, proprio l’opposto di molte produzioni attuali. Qualità del genere sono ormai andate perdute a causa di una maggiore complessità quanto a programmazione e ovviamente costi di sviluppo. Ma forse non sarebbe male fare un passo indietro e proporre esperienze più simili a quelle di tre generazioni fa.
Le alternative possibili
A tal proposito, le case di sviluppo potrebbero agire in modi differenti. L’opzione più semplice sarebbe quella di rinunciare agli enormi open world a cui siamo stati abituati in favore di mappe di gioco più contenute. Qualcosa di simile a quel che fanno attualmente i giochi AA, ma appunto con una maggiore cura di fondo. Immaginatevi quindi un level design più ragionato ai fini del gameplay, meno NPC con quest banali e più attività “fatte a mano”. In poche parole, servono più situazioni non convenzionali e gimmick. Servono più giochi nel gioco.
Un’altra alternativa – assai più complessa – consiste nella realizzazione di mondi sandbox. Le case di sviluppo potrebbero partire dall’ottimo esempio tracciato da Breath of the Wild per costruire esperienze più rifinite. Infatti, il capolavoro di Nintendo è un’ottima dimostrazione di come realizzare un open world estremamente diversificato (grazie Monolith Soft) sia nei biomi proposti che nelle dinamiche ad essi relate. Per non parlare del gameplay, che permette tantissimi approcci per merito di una fisica di gioco eccezionale. E nonostante qualche sbavatura determinata da un sistema di combattimento un po’ limitato, il risultato è comunque sbalorditivo.
Le software house potrebbero prendere ispirazione dal suddetto proponendo soluzioni mirate ad incidere sull’esplorazione o sul gameplay. Quindi, meccaniche che rendano i bellissimi mondi di gioco meno statici e più credibili, così come fasi di gameplay più dinamiche. Servono nuovi elementi da aggiungere ai già collaudati sistemi di combattimento melee o da third person shooter. I videogiochi devono tornare a far giocare i videogiocatori e possono farlo proponendo metodi per la navigazione degli scenari alternativi, oggetti capaci di stravolgere il gameplay o abilità utilizzabili dal personaggio. Sfortunatamente, tutto ciò si scontra con i limiti imposti dal contesto.
Un esempio pratico: Ghost of Tsushima
È chiaro che un’impostazione sandbox non è applicabile a qualsiasi tipologia di gioco poiché c’è contesto e contesto. Ad esempio, sarebbe assurdo aspettarsi meccaniche più giocose in un titolo come Ghost of Tsushima, il quale punta molto su una spettacolarità visiva e combattimenti degni di un film di Kurosawa. In questo caso, sia il periodo storico scelto che il setting realistico rappresentano due grossi limiti che tuttavia la casa di Bellevue ha sfruttato in modo intelligente. L’avventura di Jin Sakai infatti colpisce per l’impiego di elementi diegetici che contribuiscono all’immersività e punta su miti e superstizioni per dare un tocco in più a certe situazioni. Il risultato è ottimo, ma purtroppo il suddetto pecca nella struttura di quest e attività secondarie, che denotano una certa ripetitività di fondo.
Dunque, come avrebbe dovuto agire Sucker Punch per uscirsene con un prodotto ancora più rifinito? E come potrebbe migliorare la formula con un eventuale e probabile seguito? Tanto per cominciare, Ghost of Tsushima avrebbe necessitato di una mappa più piccola e una main quest più concentrata, magari in due atti. Dopo la conclusione del primo atto diviene chiaro che la struttura ludico-narrativa verrà reiterata per tutte e tre le aree dell’isola, causando una certa ridondanza. Per di più, l’ultima zona di Tsushima non viene sfruttata a dovere, e oltre ai soliti campi da liberare non offre molte missioni secondarie. Un vero peccato se pensiamo che gli sviluppatori avrebbero puntare sulla meccanica del freddo, dando vita a missioni principali e secondarie memorabili.
Per un sequel migliore
Pensando al futuro, nel caso Sucker Punch stesse realizzando un sequel di Ghost of Tsushima, è plausibile aspettarsi un cambio di ambientazione. Le destinazioni più probabili sono la Cina e il Giappone. Nel primo caso vedremmo Jin alle prese con un “mondo” e una cultura totalmente differenti, nel secondo invece potrebbero essere esplorate ulteriormente le tradizioni giapponesi. Qualunque sia la scelta del team, dovrebbero continuare la strada intrapresa con il primo capitolo, mostrando quel rispetto verso la cultura che rende speciale GoT. Ma non è tutto, per alzare l’asticella qualitativa dovrebbero correggere i difetti strutturali del primo capitolo, oltre a rendere ancora più interessante la narrativa. Il modo ideale sarebbe quello di affiancare allo Spettro nuovi alleati provenienti da contesti sociali differenti – magari borderline – così da spingerlo verso scenari imprevedibili.
Giocatori d’azzardo, cortigiane o artisti da strada itineranti potrebbero essere personaggi dotati di un forte carisma, in grado di dar vita a missioni secondarie singolari, specie se affiancate da gimmick o minigiochi ad esse relate. Per farla breve, personaggi un po’ loschi come Kenji, che se ben caratterizzati potrebbero dare tanto alla narrativa. Se tutto questo venisse infine accompagnato da un gameplay più rifinito – specialmente nella sua componente stealth – ci troveremmo davanti ad un prodotto ancor più promettente.
Attività su misura
L’esempio appena fatto è molto specifico, ma è chiaro che ogni software house dovrebbe agire in relazione ai punti di forza delle proprie opere. Ad ogni modo, ciò che necessita di evolvere è l’approccio degli sviluppatori nei confronti dell’open world. Perché, se i giocatori perdono interesse nel proseguire la main quest di un gioco, è dovuto proprio alla miriade di attività secondarie poco varie. Non è raro che quest’ultimi si prefiggano di completare ogni regione prima di passare alla successiva, per poi perdere interesse a causa della monotonia. Pertanto, l’ideale sarebbe di creare situazioni che rendano più avvincente la permanenza in un mondo di gioco, e ci sono diversi modi per farlo.
Uno di questi è quello di legare certe zone a particolari enigmi ambientali, qualcosa tipo le Rovine di Orbo di Breath of the Wild. Per chi non lo sapesse, si tratta di una zona completamente al buio che al suo interno cela svariati nemici e un Santuario da completare. Il risultato è estremamente gratificante poiché fonde egregiamente esplorazione, mistero e puzzle. Un altro esempio – ma forse un po’ più banale – è l’inserimento di boss o avversari unici. Sebbene la programmazione di nemici dotati di moveset inediti richieda un ingente quantitativo di risorse, dover affrontare combattimenti che mettono alla prova tutto quel che si ha appreso è sempre positivo. Soprattutto se al termine dell’attività c’è una ricompensa unica che va a concretizzare gli sforzi compiuti.
Infine, non bisogna dimenticare l’importanza di sfide incentrate sulle varie componenti del gameplay. Combattimenti, prove a tempo e altre attività a punti potrebbero essere un buono svago per staccare dalla missione principale. Il segreto in tutto ciò è un buon bilanciamento dei contenuti secondari, in modo tale che non risultino troppo pochi o eccessivi.
Considerazioni finali
A livello concettuale i videogiochi open world sono incredibilmente affascinanti. Potrebbero essere delle porte verso sconfinati luoghi in cui l’unico limite è rappresentato dalla fantasia (e dalle risorse) degli sviluppatori. Potrebbero farci vivere avventure sensazionali, indimenticabili, qualcosa di altrimenti impossibile in titoli lineari. Ciononostante, quest’immagine idillica si scontra violentemente con la realtà dei fatti: ad oggi soltanto una manciata di titoli meritano di essere esplorati nella loro interezza. E proprio come ho rimarcato nei paragrafi precedenti, spesso la qualità è compensata con la quantità, il che non è un bene. Nel frattempo i costi di sviluppo sono destinati ad incrementare ulteriormente e mi domando se ci sarà mai un’inversione di rotta circa le suddette questioni. Il successo di Breath of the Wild sarà riuscito ad influenzare lo sviluppo delle prossime opere open world o non assisteremo a grossi stravolgimenti?
Per scoprirlo non ci resta che aspettare e, come al solito, vi invito a seguire Nerdpool.it per restare aggiornati sul mondo dei videogiochi!
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