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Nerdpool incontra Giuseppe Camuncoli

Noto soprattutto per il suo lavoro su serie quali The Amazing Spider-Man e Hellblazer, Giuseppe Camuncoli è un fumettista italiano con alle spalle una grande esperienza su tanti titoli internazionali, e come insegnante alla Scuola Comics di Reggio Emilia. Abbiamo avuto il piacere di parlare con lui in una lunga chiacchierata sull’originalità delle storie, su John Romita Sr. e soprattutto su Undiscovered Country, uno dei suoi ultimi lavori edito in Italia da Saldapress.

Come sei stato coinvolto nel progetto e cosa ti ha convinto ad accettare di lavorare a questa serie?

Era il 2018 ed ero reduce da una bellissima esperienza fatta con Charles Soule su Darth Vader. Fu una collaborazione stupenda e funzionò talmente bene a livello di vendite, di apprezzamento da parte dei lettori e della critica, ma soprattutto a livello di feeling tra me e lo scrittore che Charles, nel momento stesso in cui consegnai l’ultima tavola, mi disse che dovevamo subito fare qualcos’altro insieme.

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 Mi propose varie idee, tra cui altre serie su Star Wars e questo progetto di Image Comics con Scott Snyder. Scott è uno scrittore che mi piace molto e avevo già lavorato con lui su All-Star Batman, quindi pensai che potesse essere molto interessante sentire di cosa si trattava il progetto che stavano costruendo.

 All’inizio doveva essere una miniserie di 6 numeri. Il fatto che sia andata molto bene e che si sia trasformata in una serie regolare, (ormai è ufficiale, durerà 36 numeri, quindi saranno sei volumi in tutto) ha fatto sì che il mio contributo a questa storia diventasse fin da subito piuttosto impegnativo.

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 Non ho fatto tantissime serie come creatore unico. Questa è la più importante tra quelle che ho realizzato e memore dell’esperienza di Darth Vader, ci tengo che sia qualcosa di completamente mio, anche se faccio solamente i layout. Daniele Orlandini e Marcello Grassi, entrambi disegnatori incredibili, sono riusciti a trasformarli in qualcosa di comprensibile e di finito. È stato facile convincermi a lavorarci, anche perché se da soli Scott e Charles sono due scrittori incredibili, insieme realizzano un prodotto davvero unico.

Sin dall’inizio della storia abbiamo diversi protagonisti intenti ad affrontare un viaggio all’interno dell’America, percorrendo una spirale fino ad arrivare al suo centro. Ogni ambiente è molto diverso dal precedente: variano per design e stile di vita delle persone che lo abitano. Quale tra questi è stato per te il più coinvolgente, divertente da creare, e quale invece è stato il più complicato a livello di progettazione, di idee?

L’idea alla base della storia è proprio quella di compiere un viaggio all’interno dell’America, profondamente cambiata rispetto ai giorni nostri. Durante questo percorso attraversiamo diverse macro-zone del paese, vedendone il meglio e il peggio in maniera assolutamente amplificata rispetto alla realtà attuale. Come Scott e Charles hanno avuto modo di dire più volte, Undiscovered Country è una lettera d’amore al loro paese. Senza nascondersi dietro a sentimentalismi inopportuni, mettono in luce gli aspetti positivi, così come le grandi contraddizioni e problemi dell’America, amplificandoli attraverso questa lente che è il nostro fumetto.

 Per me è molto interessante fare questo viaggio e reinterpretare queste zone in maniera fantastica, sia da un punto di vista concettuale che visivo. Ogni ambiente rappresenta una sfida, anche se più nel lungo periodo. A livello creativo per me è abbastanza facile e divertente studiare ciò che realizzerò. L’unico problema è che non so mai, durante i sei volumi, quanto dovrò soffermarmi su una zona piuttosto che su un’altra, quindi devo trovare un equilibrio tra un design troppo semplice o troppo complicato, altrimenti corro il rischio di tirarmi la zappa sui piedi. Devo giocare un po’ a carte coperte.

 Ogni disegnatore ha le sue “pecore nere”, ne ho anch’io. Non mi piace disegnare i vascelli, quindi nonostante avessi pregato di non farmi disegnare troppo questo galeone, la terza zona è stata quella che ha rappresentato maggiormente un ostacolo per ciò che dovevo disegnare, più che una vera sfida. In realtà anche il secondo ambiente, Unità, con tutta questa parte super tecnologica è stata abbastanza impegnativa. Forse quella più divertente, al momento, è stata la prima zona. Canyon rocciosi, bestie mutanti e lo stile alla Mad Max sono abbastanza nelle mie corde, quindi mi è piaciuto molto lavorarci.

Facendo sempre riferimento al terzo volume, alla zona di creatività, si parla moltissimo delle idee. Tu da dove trai ispirazione e quali sono gli artisti o le tematiche che ti ispirano maggiormente nel tuo lavoro?

Non ho una risposta ben precisa per questo. Tante volte l’ispirazione viene da un punto del tuo subconscio e non sapevi nemmeno che fosse lì.

 Diciamo che cerco di lasciarmi affascinare o affabulare da ciò che mi suggestiona o da cose che per me sono dei classici. Frank Miller, Moebius, soprattutto per quanto riguarda il fantastico. Quest’ultimo è un autore che mi ha aperto un mondo quando ero ragazzino e spesso, anche inconsciamente, tendo verso quella direzione quando devo disegnare qualcosa di un po’ stralunato. L’ispirazione potrebbe anche giungere in maniera inaspettata da un film di Miyazaki come Kiki, oppure da Instagram. Non ho neanche il tempo di pensarci troppo, però sicuramente la mia memoria è ben allenata e nutrita sin da quando ero piccolo da fumetti, film e videoclip.

 È un oceano di tanti piccoli poli nel quale mi piace muovermi. Ogni tanto mi posso anche ripetere, ma sempre cercando di lasciarmi un po’ suggestionare dal mio gusto. Voglio che si riveli la mia cifra immaginifica come autore, ma sempre mantenendo coerenza con il fumetto che sto raccontando, è un aspetto a cui tengo.

Partendo da quella che può essere un’ispirazione dettata dal momento vado più nello specifico, anche se di solito è buona la prima. L’importante è che il risultato finale mi piaccia e mi soddisfi. Ho anche la fortuna di sottoporre il mio lavoro a due scrittori d’eccezione e a Will Dennis, editor che conosco dai tempi di Vertigo. È un amico, molto esperto e bravo nel suo lavoro. Diciamo che quando piace a loro sono abbastanza sicuro di essere sulla strada giusta.

 L’America è paese che hai avuto modo di conoscere negli anni: l’hai visitata, hai lavorato con molti artisti americani, però non è la cultura del paese in cui sei cresciuto. Hai avuto difficoltà nell’approcciarti a questo lavoro così fortemente incentrato sullo spirito, la tradizione e il patrimonio culturale americano?

Non ho avuto nessun problema in particolare, magari ci sono stati alcuni episodi legati alla storia americana che conoscevo meno, come il chiodo della ferrovia nel volume 1, Destino. Centrale è anche l’importanza di alcune figure storiche che rappresentano dei punti di riferimento per gli Americani, così come la costruzione del mito intorno alle loro gesta. Su questo aspetto mi sono dovuto un po’ informare, ma nelle sceneggiature era tutto spiegato abbastanza bene. Charles e Scott sapevano che potevo non conoscere queste cose. Anzi, durante una conferenza dissero che anche se non avessi accettato il lavoro, avrebbero comunque voluto un autore non americano ad occuparsi dei disegni. Volevano una sensibilità diversa dalla loro, per evitare di ricadere nell’autocompiacimento e creare qualcosa che potesse essere capito solo dagli americani. E’ un approccio che ho trovato molto intelligente, se non addirittura geniale. Non l’avevo mai saputo: saltò fuori durante il Comicon nel 2019, in occasione della presentazione del fumetto. Il fatto che anche il nostro cast di personaggi non sia americano riflette in qualche modo questo tipo di mentalità. Ci viene restituita la visione di persone che per 30 anni non sono potute entrare nel paese e del quale sanno poco o nulla.

Come artista pensi che ultimamente ci sia una carenza di idee? Credi che vengano riproposte sempre le stesse storie, magari semplicemente in salsa diversa o vedi delle buone possibilità per il futuro in termini di creatività?

 No, non credo ci sia una carenza di idee. Premesso che, se vogliamo essere molto cinici, le storie sono sempre quelle due o tre che circolano dall’alba dei tempi.

Io penso che ci siano tanti prodotti belli, intelligenti e fatti bene. Il problema è che adesso sono tantissimi e più ne vengono fatti più è difficile trovare qualcosa di originale, ma è così anche in campo fumettistico o musicale. È il bello e il brutto della sovrapproduzione. Volendo fare un esempio, al netto di come è finita, una delle serie che più mi ha appassionato negli ultimi anni è Westworld. L’ho seguita in maniera spasmodica, e penso che la prima stagione sia qualcosa di incredibile. Un prodotto del genere non si era mai visto prima, per la cura della scenografia, delle sceneggiature, per il cast e gli affetti speciali, per i twist che hanno utilizzato in maniera assolutamente sconvolgente. Per quanto mi riguarda sono anche pronto a sorbirmi un decennio di prodotti mediocri e banali se poi salta fuori un prodotto simile mai visto prima.

Da autore mi rendo conto che non è sempre facile fare di ogni vignetta un capolavoro, così come nel cinema e nelle serie tv. Sarà che da creatore quando vedo qualcosa che non mi piace non posso non essere clemente con i colleghi, anche quando non fanno il mio stesso mestiere. Mi piacerebbe che le persone non fossero pronte a scagliarsi contro gli altri quanto realizzano qualcosa di meno riuscito.

 Sei insegnante alla Scuola Comics di Reggio Emilia, scuola che hai contribuito a fondare e della quale sei il direttore artistico dal 2008. Qual è il consiglio o l’insegnamento più importante che cerchi di trasmettere ai tuoi studenti?

Nel 1990, a 15 anni, feci un corso base di disegno all’Arci di Reggio Emilia e nonostante non fosse così strutturato come quello della Scuola Comics mi fu molto utile. Fondamentale fu conoscere tra i banchi Matteo Casali, la persona con cui ho iniziato a livello fumettistico e con la quale ho anche fondato la scuola.

La parola che può in un certo senso riassumere tutto quello che cerco di passare della mia esperienza è networking. Ognuno di noi può essere un lupo solitario che si occupa di tutto (testi, disegni, lettering) e non vuole che nessuno metta le mani sul suo lavoro, oppure qualcuno a cui piace cambiare e collaborare con persone sempre diverse. È l’approccio che preferisco perché mi permette di vedere sempre qualcosa di nuovo, a volte in meglio a volte in peggio. Mi annoio abbastanza facilmente facendo sempre le stesse cose.

 Networking significa che anche nel caso in cui si preferisca lavorare da soli, è importante conoscere persone nell’ambiente, o anche semplicemente avere qualcuno di cui ci si fida (non necessariamente un fumettista) a cui mostrare il proprio lavoro: significa conoscere persone nell’editoria, significa avere a che a fare anche con chi porta avanti un discorso di promozione, che siano affermati o meno. Bisogna essere consapevoli che si è parte di un mondo, di un tessuto pulsante fatto di tante persone, e capire quale posizione prendere all’interno di questa rete. Il che significa cercare di capire prima di tutto se stessi per decidere cosa è meglio o non è meglio fare.

 Mi rendo conto che tutte queste cose le ho imparate da solo. Andando alle fiere, perdendo del tempo, scoprendo nuove cose e conoscendo tante persone. Mi sono divertito molto nel farlo, ma cerco, in qualche modo, di evitare agli studenti qualche passo falso sulla base della mia semplice esperienza o competenza in più.

Si tratta di conoscenze che ormai sono un po’ alla portata di tutti. Ai miei tempi quando si andava alle fiere non sapevi nemmeno quali autori avresti trovato, mentre ora le informazioni abbondano. Allo stesso tempo c’è molta cacofonia, quindi si fa più fatica a restringere il campo su quello che ci interessa.

In questi 20 anni di esperienza che tipo di evoluzione hanno subito il tuo stile e il tuo modo di lavorare?

Ogni tanto mi capita di rivedere dei vecchi file. Ero sicuramente più spigoloso e meno realistico nel modo di disegnare. Quando ho iniziato ero fortemente influenzato da autori Vertigo e che avevano un modo di disegnare non realistico. Persone come Dave McKean ad esempio, dotate di un guizzo che rende artistico quello che fanno. In qualche modo questo trasformava l’immagine in qualcosa di ancora più bello ai miei occhi rispetto a un disegno iperrealista. Negli anni, complice l’aver lavorato più su testate supereroistiche che non Vertigo, sono andato naturalmente a evolvermi verso un segno più funzionale. Cerco sempre di adattarlo alla storia che sto disegnando. Sicuramente con il tempo mi sono velocizzato molto ed è anche aumentato il livello di dettaglio, anche se mi considero tutto sommato ancora oggi un disegnatore sintetico.

Il 12 giugno 2023 è scomparso John Romita Sr. È stato uno dei disegnatori che hanno portato alla ribalta The Amazing Spider-Man, e uno uno dei creatori del Punitore. Proprio come lui anche tu hai lavorato moltissimo su Spider-Man. L’hai mai incontrato?  C’è qualche aneddoto o qualcosa in particolare che ricordi di lui che vorresti raccontarci?

Non l’ho mai conosciuto di persona, anche se ho incontrato il figlio, John Romita Jr. varie volte, altro autore che amo alla follia. Ho tuttavia un suo autografo con dedica che mi fece arrivare come regalo un amico tedesco. Romita Sr. credo sia il motivo per cui i fumetti Marvel sono diventati così popolari. Steve Ditko era sicuramente un genio, ma John ha reso il mondo di Spider-Man affascinante e mainstream, senza però edulcorarlo. Aveva una forza e una potenza visiva incredibile, anche nelle scene d’azione. Grande dinamismo, grande classicità, un bellissimo segno soprattutto per quello che riguarda l’universo femminile, senza renderlo scontato oppure banale. Secondo me era un disegnatore che metteva d’accordo tutti. E per un certo periodo è stato indiscutibilmente La Marvel e indiscutibilmente Spider-Man. Il volto di Mary Jane, quello di Gwen Stacy, anche quello di Peter Parker hanno quella fisionomia che è stata, secondo me, perfettamente decodificata da Romita Sr. Ha sicuramente contribuito al successo della Marvel in tanti modi, oltre ad aver avuto un forte impatto sul modo in cui disegnavo Spider-Man.

 L’aneddoto che posso raccontare riguarda The Amazing Spider-Man 700, il numero che ha dato il via al ciclo di Superior, dove Peter viene ucciso e Il Dottor Octopus ne prende il posto nel cervello e quindi anche nel suo corpo. Fu un numero che andò benissimo, fecero un sacco di ristampe, e alla terza la Marvel mi chiese di disegnare una copertina. L’idea era quella di ricreare le cover dei numeri storici di Spider-Man, per la precisione i capitoli multipli di cento, con una serie di omaggi di vari autori. Il mio era il numero 100. Realizzai la mia versione lasciando lo sfondo nero originale con tutte le teste dei personaggi comprimari in negativo, mettendo il Dottor Octopus al posto di Spider-Man.

 Ogni volta che ci sono occasioni di questo tipo per me è sempre emozionante, perché si vanno a toccare delle opere d’arte, per quanto mi riguarda. Ci sono copertine talmente potenti e talmente iconiche. Sapere che il tuo nome verrà associato a un’opera così importante è sempre lusinghiero, anche se si tratta solo di un omaggio o un rifacimento. Inoltre più ti piace il disegno originale, più è divertente lavorarci sopra. Mi impegnai molto per realizzarla e venne fuori una bella copertina. L’agente di Stan Lee dell’epoca, mi disse che Romita aveva visto il mio omaggio e gli aveva detto di farmi i complimenti. Anche se per interposta persona, questa benedizione arrivata direttamente da lui mi ha letteralmente sciolto il cuore. Il pensiero mi emoziona ancora oggi.

 Quando sei un professionista e lavori da tanti anni tutto ti affascina un po’ meno. Però ci sono alcune cose che toccano sempre le corde giuste, quelle di quando da bambino leggevi le avventure dell’Uomo Ragno e ora ti ritrovi a lavorare su una delle sue copertine. Quando accadono situazioni simili non c’è professionista che tenga. Vedo tanti miei colleghi, arrivati dopo o prima di me, che ritornano bambini quando si parla di passione o dei fumetti che li hanno segnati. C’è questo potere incredibile, visivo, emozionale, storico. Credo che ognuno di noi, per quanto la vita, il professionismo o il successo ci possano far diventare un po’ più aridi, si senta così nei momenti e nelle situazioni giuste, quelle che ci toccano il cuore. Un po’ come Anton Ego nel finale di Ratatouille.

 Mi sarebbe piaciuto tantissimo conoscere John Romita Sr. Tutti quelli che me ne hanno parlato l’hanno sempre descritto come una persona generosa, un assoluto gentiluomo, sempre pronto a guardare le tavole dei disegnatori emergenti. È molto bello quando anche solo un poco di questo atteggiamento passa in tutti quanti. Nel nostro settore c’è ancora molta condivisione, tornando a quel networking di cui parlavo prima, ancora relativamente poca invidia e competizione, e soprattutto apprezzamento verso il lavoro degli altri. Del resto ci muoviamo tutti sullo stesso terreno e condividiamo tutti lo stesso percorso.      


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