È una delle serie del momento, nonché una delle più viste su Netflix in Italia e in Spagna. La casa di carta, ideata da Álex Pina, è praticamente una moda ormai, grazie anche all’iconica maschera di Dalì. Su Netflix è ora giunta la quarta stagione che si porta con sé tutto il notevole bagaglio di azione e dramma della serie, ma abbandona ancora di più la credibilità della sceneggiatura. Ecco la nostra recensione.
Una stagione che farà discutere
La casa di carta è sicuramente un prodotto particolare. Non nego di aver ragionato moltissimo su cosa scrivere in questa recensione, così come sul voto da assegnare. È una serie che punta tutto sull’azione e sui suoi personaggi e ciò che sacrifica sull’altare della storia che vuole raccontare non sempre sembra corretto. Durante la visione delle 8 puntate che costituiscono questa quarta stagione, più volte mi sono posto un dilemma: la complessiva bontà del prodotto quanto è inficiata dalla necessità di soprassedere su alcuni buchi di trama?
È un po’ un problema esistenziale alla fine. Si potrebbe fare una valutazione del tutto tecnica e oggettiva e, quindi, valutare profondamente male certe cose e inficiare in maniera probabilmente irrecuperabile il voto. Oppure, si può guardare oltre e cercare di capire perché, poi, nonostante tutto, quando la serie accelera, diventa un turbine di emozioni che coinvolge a tutto tondo.
E partirei proprio da questo. Un problema della terza stagione era il suo essere estremamente lenta rispetto alle prime due. E quando La casa di carta rallenta, tutti i suoi difetti emergono inesorabili, pregiudicando la qualità media di visione. Nella quarta stagione, invece, si parte piano e poi si dà un’accelerata pazzesca dalla quinta puntata in poi, regalando azione e colpi di scena uno di seguito all’altro. E qui la serie non è seconda a nessuno, perché il Professore entusiasma con le sue trovate, mentre l’adrenalina nelle scene di azione è palpabile.
È per questo che ho deciso di fare una recensione spoiler. Perché fondamentalmente diventa difficile analizzare i punti deboli e i punti di forza della serie senza fare riferimento diretto ad alcuni momenti chiave della sceneggiatura.
Gandìa, l’aspirante Superpredatore
In questa stagione più che mai, grazie alla contemporanea presenza di un nemico esterno e uno interno, la serie riesce a trasmettere una concreta sensazione di pericolo costante. Il tutto funziona, alcune puntate trasmettono bene l’ansia, la claustrofobica paura di chi sta chiuso in un luogo dove è contemporaneamente preda e predatore. E il merito è tutto di Gandìa, il capo di sicurezza della Banca di Spagna, capace di creare un inedito nella serie. È la prima volta, infatti, che la banda deve affrontare un avversario spietato ed esperto di tattica militare e i risultati sono evidenti.
Fino alla sesta puntata è disfatta totale, simboleggiata dalla clamorosa morte di Nairobi. Clamorosa, ma attesa, perché prima di quel momento gli indizi sul nefasto destino di Nairobi erano stati copiosamente seminati. Ho voluto, in realtà, iniziare da Gandìa, perché è esattamente l’esempio di questa costante contrapposizione tra buone trovate e una sceneggiatura problematica. La nemesi della banda funziona alla grande, intrattiene, convince. Ma le sue origini sono totalmente prive di senso.
L’assurdo che funziona
Gandìa si libera, esortato da Palermo, in maniera assolutamente nonsense, dopo aver passato l’intera terza stagione a minacciare a vuoto chiunque passasse dalla zona ostaggi. All’improvviso si crea un nemico fortissimo e apparentemente invincibile, capace di mettere in ginocchio la banda. E il tutto viene giustificato dai flashback del Professore sul periodo in cui lui, Berlino e Palermo stavano organizzando per la prima volta il piano. E lì avevano, a quanto pare, giudicato particolarmente pericoloso il capo della sicurezza.
Peccato che questa cosa perde completamente senso se rapportata al fatto che durante la terza stagione la pericolosità del personaggio era stata quasi completamente trascurata. C’era un possibile nemico così pericoloso e così ben addestrato? E perché è stato ammanettato in maniera così superficiale? Perché non gli è stata dedicata particolare attenzione? Sono dettagli, vero, ma messi tutti insieme contribuiscono a dare la sensazione che il personaggio di Gandìa venga costruito ad hoc in pochi minuti di puntata e lanciato come ultra nemesi del gruppo.
Ma, nonostante tutto, funziona alla grande. Acuisce alle stelle il tasso di azione, regala momenti spettacolari e, in generale, mantiene l’ansia all’interno della banca sempre al massimo, catturando lo spettatore, che rimane incollato allo schermo. In questo, la seconda metà della serie è davvero eccellente. Le ultime due puntate, in particolare, sono un crescendo di trovate fuori di testa del Professore che funzionano e sorprendono, sempre mantenendo attiva un po’ di sospensione di incredulità. Il piano per liberare Lisbona è particolare e strappa un sorriso, così come la soluzione al problema Gandìa è naturale conseguenza del suo voler combattere uno contro tutti.
I Dalì
Pollice in su anche per lo sviluppo dei personaggi della banda. Quasi tutti riescono a maturare positivamente durante la stagione. Scopriamo un po’ di più Marsiglia, silenzioso ma efficace, capace di rivelarsi personaggio carismatico ed estremamente funzionale al racconto. Rimane tormentato il carattere di Denver che è sempre, contemporaneamente, uomo e bambino ed è un unicum nella banda. Anche l’idea di aver inserito un infiltrato tra i civili è positiva e credibile, creando una situazione completamente inedita che contribuisce positivamente alla trama.
Su Palermo spendo una nota a parte. È esattamente il personaggio caotico e imprevedibile di cui la serie ha bisogno in assenza di Berlino. Non ha minimamente il carisma di quest’ultimo, però è necessario per sparigliare le carte, per creare caos come un qualsiasi poeta maledetto. E alla fine è esattamente quello, un personaggio inesorabilmente tendente all’autodistruzione. Considerando il ruolo minore di Tokyo in questa stagione e la situazione di Nairobi, la presenza di Palermo è davvero fondamentale per regalare imprevedibilità alle scene.
Qualcuno, comunque, rimane un po’ sottotono, ma quando devi gestire così tanti personaggi è comprensibile. Su Bogotà il focus è praticamente solo sentimentale e va anche bene, perché serve a costruire a modo il climax per la morte di Nairobi. È un po’ un peccato, perché il personaggio doveva essere il sostituto di Mosca come “maestro” di Denver, ma il suo riesce comunque a farlo. Anche lo sviluppo di Rio sembra essersi fermato. Su di lui sembra si voglia costruire un (interessante) studio degli effetti post-traumatici di una tortura lenta e massacrante. In realtà, però, tutto serve quasi solamente a creare l’espediente per la liberazione di Gandìa e per la gelosia di Denver. Un po’ poco considerando l’importanza della tematica.
Resistere alla Resistenza
In ogni caso, la contemporanea lotta esterna tra la banda e Gandìa e tra il Professore e l’ispettrice Sierra regala momenti esaltanti e ricchi di tensione. Un po’ meno la sottotrama dedicata ad Arturito, che è completamente inutile nella sceneggiatura complessiva e anche un po’ abbozzata. L’evoluzione di Arturo all’interno della serie rimane piuttosto inspiegabile e confusa, considerando l’importanza che il personaggio ha rivestito nelle prime due stagioni.
Il personaggio sembra quasi voler proporre un sentimento di ribellione alla Resistenza in modo simile a quanto fatto nelle prime due stagioni. Contemporaneamente, però, e senza alcun motivo suggerito dallo sviluppo subito nelle precedenti stagioni, si rende colpevole di atti di abuso su una donna. Sembra tutto estremamente abbozzato, buttato lì giusto per raccontare un’altra storia, apparendo quasi completamente fuori contesto. È evidente che si volesse creare un’altra storia parallela al resto e dedicata agli ostaggi. Ma, raccontata così, non riesce davvero ad emergere interessante quanto dovrebbe.
Conclusione
Riassumendo, la realtà è che la stagione 4 de La casa di carta funziona, e funziona anche meglio della stagione 3. Non raggiunge i livelli delle prime due, ma regala momenti di puro intrattenimento e tiene incollati allo schermo con diversi colpi di scena, qualcuno telefonato, altri molto meno. Il problema rimane sempre la presenza di buchi di trama inspiegabili e di situazioni al limite del fantascientifico. L’esempio più lampante rimane l’operazione chirurgica che i membri della banda eseguono su Nairobi, estraendole un proiettile asportando parte di un polmone sotto parziali indicazioni di un medico Iraniano. È una situazione al limite del ridicolo, che strappa più di un sorriso.
Ecco, la realtà è che se si vuole apprezzare quanto di buono offre la serie, bisogna soprassedere su tutte queste situazioni. Bisogna accettare performance attoriali non al top, situazioni di trama talvolta ridicole o abbozzate, soluzioni a problemi fin troppo articolate e confuse. Perché, poi, nel quadro complessivo, tutto funziona alla grande, il plot riesce comunque a intrattenere e i personaggi si impongono con forza.
Per questo il mio giudizio complessivo sulla quarta stagione de La casa di carta è positivo. È una serie che ha creato un universo ben definito, concreto, che sviluppa questa eterna lotta tra Stato e Revolución nel conflitto tra una banda di scapestrati e lo Stato spagnolo. Tutto è finalizzato a questo, la parola “resistenza” è continuamente utilizzata e il messaggio che si cerca di trasmettere è moderno e ben delineato. Non è una serie perfetta, men che meno questa stagione, ma intrattiene alla grande, è divertente e regala un pacchetto colmo di azione, dramma e colpi di scena.
Ricordiamo che è stato già confermato che la serie continuerà con una quinta stagione! Seguiteci per altre novità su La casa di carta e altre serie Netflix.
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