Durante Milan Games Week & Cartoomics abbiamo avuto l’onore di intervistare, insieme a Comixisland, un autore che ha fatto la storia della Marvel e, in particolare, degli X-Men, Chris Claremont. Tra gli anni ’70 e gli anni ’90 ha raccontato le storie dei mutanti, dando vita a un lunghissimo ciclo narrativo che rimane ancora oggi nella memoria di tutti i lettori. Abbiamo parlato con lui della sua visione dei mutanti, delle difficoltà di uno scrittore, e non solo. Un ringraziamento speciale a Panini Comics che ci ha permesso di avere questa grande opportunità.
È stato uno dei primi scrittori a umanizzare i supereroi, vedendoli prima di tutto come persone, dando origine a una serie di grandi successi per gli X-Men e la Marvel. Cosa l’ha spinto verso questa scelta?
È così che li ho sempre visti, anche quando ero un lettore. Essere un eroe o un villain è una scelta, ma quello che importa è chi siamo come persone, quindi per me, che si tratti di Magneto o di Charles Xavier, è importante presentarli prima di tutto come esseri umani, come persone. In quel modo puoi mostrare come siano le loro scelte a definire la persona che diventano.
Con gli X-Men ha sempre cercato di portare avanti un ideale di uguaglianza e rispetto reciproco che sembra ancora lontano nella nostra società. Pensa che i fumetti oggi abbiano un ruolo importante in tal senso e possano aiutare a trasmettere questi valori?
Onestamente non saprei, ma spero di sì. Per ogni libro o forma di intrattenimento si spera che possa trasmettere un significato profondo e importante. Se funziona, bene, altrimenti bisogna provare e riprovare.
E pensa che le sue storie siano riuscite a farlo?
Anche in questo caso lo spero, ma sta al lettore decidere come interpretare una storia. Idealmente possiamo sperare che succeda. Se al lettore capita di riconoscersi in un personaggio, le decisioni che questi prendono avranno una risonanza sul lettore allo stesso modo in cui si ripercuotono anche sugli altri personaggi della storia.
Qual è la storia che ha scritto alla quale si sente più legato e quella che oggi scriverebbe in maniera diversa?
Non ne ho una precisa. Ho sempre visto gli X-men come un’unica lunga storia. Le saghe singole o le storie incentrate sui singoli personaggi sono le cose che accadono loro. È come se noi ci svegliassimo la mattina e ci succedesse qualcosa di inaspettato nel corso della giornata. Non si tratta di tutta la nostra vita, è solo un piccolo avvenimento, ma che potrebbe avere un importante significato. Le storie che ho in mente sono quelle che non ho ancora scritto, quello che succederà domani. Gli altri giudizi li lascio al lettore. Se non mi fossero piaciute probabilmente non le avrei scritte.
A tal proposito, ha qualche storia nel cassetto legata agli X-Men che vorrebbe scrivere?
Con mia grande sorpresa ne ho un’infinità in mente. Sfortunatamente, il problema non è tanto pensare a una storia, ma avere un editor che sia abbastanza interessato da pubblicarle.
Sappiamo che il rapporto con gli editor non è sempre stato facile per lei.
Purtroppo, è questo il mondo dell’editoria. Anche Stan Lee all’inizio ha proposto le sue storie a un editor che doveva scegliere se pubblicarle o meno. All’inizio della mia carriera, come editor, ho ricevuto una proposta da Jerry Siegel. Come potevo rispondere? Purtroppo, era una storia che Marvel non poteva pubblicare in quel momento.
Sicuramente è anche questione di avere la storia giusta per quel momento e per quello specifico editore. Come quando aveva pensato di uccidere Wolverine…
Una storia che propongo ora potrebbe non essere adatta alla continuity attuale. In realtà io inizialmente non volevo uccidere Wolverine e un editor è venuto da me dicendo “perché non hai ucciso Wolverine?”. Chiedendogli il perché mi ha detto che non essendo parte della continuity del tempo potevo avere carta bianca, e questo ha fatto partire la serie in maniera eccezionale. Purtroppo, in quegli anni c’erano troppe serie degli X-Men pubblicate nello stesso momento e i negozi stessi non riuscivano a supportarle tutte, quindi la mia idea non è andata molto avanti. [Ndr: sta parlando di X-Men Forever del 2009]
Cosa l’ha spinta a tornare a occuparsi degli X-Men nel 2000?
Marvel mi ha chiamato chiedendomi se volessi scrivere una storia degli X-Men e ho risposto subito di sì!
E cosa consiglierebbe oggi a un’aspirante autore che vuole avvicinarsi al mondo del fumetto?
Inizia a scrivere. Se hai una buona idea inizia a scrivere. È un lavoro molto semplice, il difficile è trovare un editore. Qualche decennio fa eravamo a una fiera ed è arrivato un ragazzo con una storia di fantascienza sulla vita del personale nel ponte inferiore della Enterprise. Come affrontano le avventure gli ingegneri o quelli che fanno ricerca astronomica? È una prospettiva diversa rispetto a quella che conosciamo. Allora io, Howard Chaykin e Frank Miller gli abbiamo detto “è una bella idea, ma perché ambientarla nell’Enterprise? A chi importa? Se scegli questa ambientazione l’idea finisce subito alla Paramount. Perché non creare il tuo mondo, la tua nave spaziale, la tua realtà, così puoi lavorare come vuoi e tenere tutti i soldi per te.” Lui scioccato rispose che vedeva quella storia dentro Star Trek e, dopo altri cinque minuti di chiacchierata, non aveva cambiato idea.
La sfida è che se hai una buona idea e hai fede in essa, portala avanti per te stesso. Poi puoi sempre prenderla e proporla a Marvel o DC. Pensate se John Byrne avesse continuato a occuparsi degli X-Men e fossi stato io a lasciare la testata. La storia avrebbe preso una strada totalmente diversa visto che tutti i personaggi che ho creato, eccetto Kitty, sono nati dopo che John ha lasciato gli X-Men. Cosa sarebbe successo alla Marvel e a me? Non lo so, non lo sa nessuno, ma si tratta sempre di fare una scelta e tenere le dita incrociate sperando che sia quella giusta.
Tornando agli X-Men, i personaggi ancora oggi sono rappresentativi di multiculturalità, di differenze di genere e non solo.
Basta leggere i giornali e vedere tutti i conflitti che esistono negli Stati Uniti e in Europa tra governi e nazioni che cercano di affrontare i flussi migratori. Quelle persone non sono nemici, cercano solo una possibilità di vita migliore, ma sono di colore o di fede diversa, e quindi come si affronta questa situazione? Penso che il problema sia trovare una risposta soddisfacente e che possa valere per ogni situazione. Ed è qualcosa che forse si sente di più negli Stati Uniti, simboleggiata dalla Statua della Libertà e dalla tavola che tiene in mano. L’America teoricamente si fonda su un’idea di accoglienza verso chi non ha un posto dove stare, ma le persone che ci abitano già non sono d’accordo e lo stesso accade in alcuni paesi d’Europa. Tutto sta nel decidere se e come accogliere queste persone, se mandarle in un’altra nazione o bloccarle con un muro.
Non c’è una risposta semplice, ma ponendo la domanda o inquadrando le storie in una maniera che permetta ai lettori di vedere il tema da entrambi i lettori si può spingere il lettore a provare empatia per entrambe le parti o a pensare a una soluzione che possa funzionare per entrambe. Avere paura è la cosa più facile che una persona possa fare, la sfida è fare un passo al di là di quella paura verso un’idea di comprensione e per provare a rendere le cose migliori. Per me questo è alla base degli X-Men, non costruire un’isola e tenere il resto del mondo a distanza. Ma non sono io a prendere le decisioni, posso solo guardare dall’esterno e presentare la mia opinione.
È uscita da poco una sua nuova storia degli X-treme X-Men a vent’anni di distanza dalla precedente. Pensa che i personaggi siano cambiati dall’inizio della serie?
La storia uscita ora è l’esatta prosecuzione della serie precedente. I personaggi sono cresciuti nel corso dei circa 50 numeri e il modo in cui io e Salvador Larroca abbiamo trattato i personaggi è molto diverso dalla seconda parte con Igor Kordey. Ai tempi io e Igor avevamo anche l’opportunità di lavorare su una nuova serie ambientata a Genosha dopo che le sentinelle avevano ucciso quasi tutti i mutanti. Per me, e spero anche per lui, era una fantastica opportunità per presentare la vita in un mondo post-apocalittico, con i disegni di qualcuno che aveva vissuto a Sarajevo e sapeva cosa significhi vivere una situazione simile, sentirsi sempre presi di mira da un cecchino. Volevo presentare una prospettiva di quella realtà alla quale molti americani e anche molti lettori europei non erano abituati. Purtroppo, Marvel era di un’opinione diversa, ma questo è quello che succede ogni volta. Proponi un’idea, incroci le dita e speri che vada bene.
C’è un personaggio fuori da Marvel o DC che le piacerebbe scrivere?
Ho scritto diversi personaggi che non sono Marvel o DC. Il bello è che sono miei, ma è frustrante quanto sia più difficile venderli. Ogni scrittore ama i personaggi e le storie di sua creazione, molto di più di quelli che appartengono alle grandi aziende, ma scrivere è quello che faccio e che continuo a fare. Ho scritto un romanzo, la prima parte di una trilogia, che ho riscritto tre volte per un totale di ben più di 100.000 parole, e non ha funzionato. Quindi l’ho messo in un cassetto e quattro anni dopo ho ricevuto una chiamata da un editor che voleva una storia di una certa lunghezza e tipologia e mi sono reso conto che si avvicinava molto a quello che avevo già scritto. In due settimane ho scritto un racconto di 8000 parole che ha venduto bene. Quando si è scrittori, il trucco sta nel riuscire a capire come vendere una storia, come sfruttare il tuo editor e come arrivare al pubblico. E una volta fatto, si ricomincia a pensare alla storia successiva.
Ringraziamo nuovamente Panini Comics per la grandissima opportunità e Chris Claremont per la disponibilità. Ci risentiamo a brevissimo per la prossima intervista!
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